L’OLMAIA

Nell’immaginario comune nominare Val d’Orcia significa evocare strade da cartolina, vini rinomati, oli pregiati. Per molti appassionati di birra però, la Val d’Orcia è diventata rinomata soprattutto per altri motivi. E’ il 2003 quando tre amici, Moreno, Stefano e Massimiliano, accomunati dalla passione del buon bere, decidono di provare a produrre birra comprando un impianto da 25 litri, senza neanche passare da kit e pentolame vario. La cosa comincia a farsi seria quando l’anno successivo Moreno Ercolani segue un corso di birrificazione condotto da Leonardo Di Vincenzo di Birra del Borgo. Dopo aver ristrutturato un vecchio casolare situato all’interno del parco naturale della Val d’Orcia (dove i CSI registrarono l’album “Linea gotica“!), il 2 gennaio del 2005, viene realizzata la prima cotta dell’Olmaia.

I “beer brothers”, Moreno e Massimiliano, producono birre di genuina e schietta semplicità, sempre ben riconoscibili, per via di un carattere piacevolente ruvido che con il tempo si è lentamente smussato a favore di una maggiore pulizia ed equilibrio. Una gamma birre solida, contenuta nel numero, che non lascia spazio a derive modaiole. Cinque le birre fisse, tutte ad alta fermentazione: La5, una dorata luppolata e beverina di 5,5° alc, La9, ambrata di 6.5° alc di grande equilibrio e spessore, la fresca blanche PVK di 4,5% alc, la BK, secca ed erbacea stout da 6° alc, e la recente Starship, una bitter veramente ben fatta. Non mancano alcune stagionali, come la natalizia Christmas Duck e la Karkadè, realizzata in esclusiva per la birreria Open Baladin e per il mercato statunitense. e speciali nate ad esempio dalla vicinanza con il mondo del vino come la linea di birre affinate in barrique di Nobile di Montepulciano.

Nella primavera del 2009, l’Olmaia lascia Chianciano per spostarsi nel più funzionale stabilimento di S. Albino, a pochi chilometri da Montepulciano.

L’OLMAIA “BK”

Birra di colore scuro quasi impenetrabile, ad alta fermentazione ispirata alla tradizione irlandese.

Birra amara dal gusto tostato grazie all’utilizzo di più tipi di malto con una doppia luppolazione rendono la BK molto strutturata ed equilibrata. Compagna ideale di arrosti, grigliate e lunghe chiacchierate.

Al naso le note tostate sono alleggerite e rinfrescate dalla presenza del luppolo. In bocca il panorama si ripresenta: pur con sentori di caffè e cioccolato, chiude piacevolmente secca e aromatica grazie all’attento uso del luppolo.


Non filtrata, non pastorizzata, rifermentata in bottiglia e fusto.
6% Alc. in vol.

 

Rifermentata in bottiglia Alc. 6% in Vol.

L’OLMAIA “PVH”

Birra con 35% di cereali crudi (grano tenero, grano duro, orzo, avena) della Val d’Orcia prodotti dall’Azienda Agricola Biologica Lucignanello di Pienza.
Colore giallo carico, con riflessi dorati, opalescente. Naso molto fresco, con note di cereali, fiori bianchi e agrumi.
Un buon corpo, parte centrale della bocca dolce, quasi mielosa, rinfrescante nella parte finale appena balsamica.
Molto fresca e beverina anche grazie a una piacevole nota amaricante.
Non filtrata, non pastorizzata, rifermentata in bottiglia e fusto.
4,5% Alc. in vol.

PVK è l’abbreviazione della parola ‘PEVAKH’
Pevakh era il nome associato a una primitiva forma di birra prodotta dagli Etruschi, secondo i ritrovamenti in numerosi scavi archeologici. Veniva prodotta a partire dalla segale. La Toscana è una terra ricca di radici Etrusche, e dato che la PVK è una birra realizzata con diversi cereali della Val d’Orcia, in Toscana, è sembrato appropriato dare alla birra lo stesso nome.

Processo produttivo

Il processo produttivo della birra può essere definito “birrificazione” o “brassaggio” e richiede numerose fasi di lavorazione.

La prima di queste fasi può essere definita maltificazione: l’orzo o gli altri cereali dopo essere stati selezionati e ripuliti, vengono immessi nelle vasche di macerazione, dove ricevono l’acqua e l’ossigeno necessario per la germinazione.

Questo processo dura in genere tre o quattro giorni durante i quali l’acqua è mantenuta a temperature comprese fra i 12 e i 15 gradi, e viene continuamente cambiata. Una volta che è stato raggiunto il grado di umidità sufficiente, l’orzo viene messo a germinare per circa una settimana nei cassoni di germinazione o comunque in un luogo ben aerato.

Il processo viene arrestato quando il germoglio ha raggiunto circa i due terzi della lunghezza del chicco, tramite essiccazione o torrefazione.

L’orzo maltato viene quindi macinato fino ad ottenere una specie di farina, quindi miscelato con acqua calda (circa 65-68 gradi). Questa fase è detta ammostatura, in quanto il malto si trasforma in mosto. Precisamente questo avviene quando l’amido ancora presente nel malto si trasforma in uno zucchero, il maltosio. La massa, mantenuta in agitazione, viene portata, con opportune soste, alle temperature ottimali per l’attività enzimatica di degradazione di amido e proteine, favorendone così la solubilizzazione nel mosto.

La parte liquida viene quindi separata dalla parte solida tramite filtrazione all’interno di un tino filtro, in cui il mosto con le trebbie viene pompato dal basso. Quando tutto il mosto è stato trasferito, si lascia che le trebbie sedimentino sul falso fondo forato, e si procede quindi alla filtrazione. Per raggiungere un buon livello di limpidità, il mosto viene fatto ricircolare più volte.

Il passo successivo è la cottura del mosto all’interno di apposite caldaie, tradizionalmente in rame (si tratta infatti di un buon conduttore termico che non si degrada eccessivamente). Il tempo di cottura è fondamentale per la scelta del tipo di birra che si vuole produrre ed anche per la sua qualità, in quanto durante questo processo avvengono la gran parte delle reazioni biochimiche; normalmente varia tra un’ora e due ore e mezza. Durante la bollitura, che nei birrifici moderni avviene tramite getti di acqua bollente ad alta pressione, si ha anche l’importante processo di sterilizzazione del mosto. Sempre durante questa operazione avviene l’aggiunta del luppolo. In genere la sala di cottura viene considerata come il “cuore” del birrificio.

Nel corso dell’ebollizione, in seguito a reazione tra i polifenoli del malto e del luppolo e le proteine del malto, si formano complessi insolubili che costituiscono il trub a caldo. Questo tende a precipitare al termine del processo e l’allontanamento è considerato fondamentale per la qualità e la stabilità della futura birra. Tale azione è effettuata mediante l’uso del whirlpool, tino nel quale il mosto giunge tangenzialmente generando una forza centrifuga che determina la raccolta della fase torbida sul fondo, al centro del recipiente, e permette la separazione di una fase liquida limpida.

In seguito il mosto viene raffreddato fino a temperature per le quali può avvenire la fermentazione: dai 4 ai 6 gradi per la bassa fermentazione e dai 15 ai 20 gradi per quella alta.

La fermentazione si divide in due fasi; la prima, detta fermentazione principale, vede come principale protagonista il lievito, che ha la funzione di trasformare gli zuccheri e gli aminoacidi presenti nel mosto in alcol, anidride carbonica e sostanze aromatiche. Il processo che utilizza Saccharomyces cerevisiae è più rapido (ci vogliono in genere tre o quattro giorni) di quello a bassa fermentazione, in quanto si svolge a temperature superiori, e i processi di fermentazione sono favoriti dal calore. Questo lievito inoltre risale in superficie e viene recuperato con schiumature, e per questo è notevolmente economico.

La fermentazione secondaria (detta anche maturazione) invece consiste nel lasciare per circa quattro o cinque settimane la birra in grosse vasche di maturazione, ad una temperatura compresa fra 0 e 2 gradi. Questa operazione permette di saturare di anidride carbonica la birra e di far depositare i residui di lievito, oltre che per armonizzare i vari ingredienti.

Infine c’è la pastorizzazione che è un processo al quale non tutte le birre vengono sottoposte, che consiste nel portare la birra a una temperatura di 60 gradi per distruggere alcuni microrganismi e quindi conservare maggiormente il prodotto. La birra non pastorizzata viene definita cruda.

Alla fine del processo alcune birre vengono filtrate per toglierle i residui di opacità e infine imbottigliate o infustate.

Esistono alcune birre che sono “rifermentate in bottiglia”. In questo caso, prima di chiudere il tappo, si aggiunge del lievito in modo che, oltre alle due ordinarie fermentazioni, ne avvenga una terza che aumenta il tasso alcolico. Sono un’eccezione le birre di frumento che, pur avendo lievito all’interno della bottiglia, mantengono una gradazione normale.

Tipi di fermentazione

Tra le fasi del processo produttivo la fase di fermentazione del mosto è quella che non solo determina il carattere e il contenuto alcolico della birra ma è pure origine di una serie rilevante di sostanze che ne influenzano gli aspetti organolettici, non solo gustativi e di struttura ma anche di sensazioni odorose e aromatiche.

Come descritto sopra, vi sono due tipi di fermentazione: l’alta fermentazione e la bassa fermentazione. Queste due procedimenti diversi sono alla base della classificazione nelle due macro tipologie di birra distinte omonime (vedi Classificazione ove viene spiegato che, in realtà, esiste, se pur pochissimo diffusa, anche una terza tipologia di fermentazione). Il diverso intervallo di temperatura alla quale si svolgono i due tipi di fermentazione è una condizione fisica imprescindibile per lo svolgimento dei processi enzimatici e chimici peculiari dei due ceppi di lieviti distinti.

Dal punto di vista terminologico, però, la dizione “alta” e “bassa” relativa alla fermentazione del mosto di birra non è legata al diverso intervallo di temperatura (più alto nell’utilizzo del Saccharomyces cerevisiae per le birre Ale e più basso nell’utilizzo del Saccharomyces carlsbergensis per le birre Lager). Anche se abbastanza diffusa questa spiegazione è tuttavia errata. La dizione infatti è legata al movimento dei lieviti esauriti nel tino a fine fermentazione: il cerevisiae sale in alto ovvero in superficie, il carlsbergensis scende in basso ovvero sul fondo. Il movimento in alto e in basso è conseguenza della specificità metabolica dei due lieviti diversi.

Infatti, fu lo stesso Emil Christian Hansen, lo scienziato danese che nel laboratorio della Carlsberg per primo utilizzo questo tipo di lievito che poi prenderà il suo nome, a suddividere i lieviti per la produzione della birra in top-fermenting (alta fermentazione, ove top si riferisce al fatto che “si dirigono in alto”) e in bottom-fermenting (bassa fermentazione, ove bottom si riferisce al fatto che “si dirigono in basso”).

Nei birrifici, quando si produce una birra di stile ale, si può assistere alla consueta operazione di raccolta della massa di lievito sulla superficie del tino con l’impiego del tradizionale “cucchiaione”. Invece, nei serbatoi ove si è svolta la fermentazione di una birra di stile lager, il lievito forma una specie di marmellata che si adagia sul fondo della vasca da dove viene poi estratta.

Gradi Plato

I gradi Plato sono una unità di misura della densità di una soluzione particolarmente utilizzata nell’industria birraria per la sua immediatezza d’uso.

Per definizione, si dice che la densità di una soluzione misurata in gradi Plato è l’equivalente della densità, misurata in percentuale peso/peso, di una soluzione di saccarosio diluita in acqua.

In altre parole, dire che un litro di mosto di birra abbia un contenuto pari a 12 gradi Plato, equivale a dire che la densità di estratto (cioè di zuccheri disciolti nel mosto) in questione sia pari a quella di un litro di soluzione acquosa contenente il 12% peso/peso di saccarosio: approssimando il peso specifico dell’acqua a 1 kg/l e supponendo di essere sul livello del mare e a temperatura ambiente, si può quindi dire che il campione di mosto contiene circa 120 grammi di estratto.

BIRRIFICIO MONTELUPO Re Tartù

La Re Tartù, che come è intuibile dal nome, ha forti sentori tartufati. La birra è una Ale di 5 gradi, che all’olfatto e al gusto presenta una importante presenza di tartufo, ma è assolutamente piacevole e assolutamente bevibile

Definizione di birra artigianale

Cos’è la birra artigianale?
Definire la birra artigianale non è compito facile, perché non esistono delle linee guida ufficiali che stabiliscano i confini della denominazione. L’espressione può essere considerata come l’opposto semantico di “birra industriale”, cioè dei prodotti delle multinazionali del settore, che si possono facilmente trovare in tutti i bar e nella gran parte dei pub italiani. In parole povere, la birra artigianale è qualcosa di diverso (ed estremamente migliore) della birra che la gente solitamente beve e conosce.

In generale la birra artigianale è una birra non pastorizzata, prodotta senza l’utilizzo di conservanti e ricorrendo a ingredienti di prima scelta. Benché il risultato finale dipenda in larga misura dall’abilità del birraio, spesso il concetto di birra artigianale è correlato a quello di birra di qualità. Le scelte compiute in fase produttiva, infatti, sono molto diverse da quelle dei grandi birrifici industriali, che al contrario non hanno come obiettivo primario la realizzazione di un prodotto qualitativamente apprezzabile. I motivi sono diversi:

Le multinazionali puntano a uniformare il gusto dei loro prodotti, al fine di livellare le aspettative dei consumatori e di raggiungere la più ampia fetta di utenti possibile. Non troverete mai una birra industriale particolarmente interessante: sono sempre prodotti piatti, scialbi, che tendono ad assomigliarsi tra loro.
Le birre industriali sono sempre filtrate e pastorizzate, in modo da garantire la massima conservazione del prodotto e annullare le eventuali variazioni di gusto rispetto al “modello” originale. Il risultato è però un prodotto “morto” e senza alcuna profondità.
Le birre industriali spesso sono prodotte con additivi chimici, conservanti e con surrogati del malto d’orzo, come il riso e il mais, che permettono di contrarre i costi di produzione ma compromettono di gran lunga l’esperienza gustativa.
Diversamente la birra artigianale è spesso un prodotto non scontato, con un proprio carattere preciso e un alto livello di creatività. In parole povere è birra vera, capace di trasformare la bevuta in un’esperienza unica, che nessun birrificio industriale è in grado di garantire.

La diffusione dell’interesse per la birra artigianale muove proprio dal desiderio di rivalutare una bevanda che per lungo tempo è stata associata esclusivamente ai prodotti industriali dei grandi operatori del settore. In Italia è in atto una renaissance della birra di qualità, grazie alla presenza di oltre 600 produttori artigianali, molti dei quali sorti solo negli ultimi anni. Il movimento di rinascita dei prodotti artigianali è un episodio non solo italiano, ma coinvolge molti altri paesi europei, che stanno seguendo il processo che è iniziato negli Stati Uniti negli anni ’80 (nel 2003 si contavano negli USA ben 1.426 produttori artigianali). Oggi queste nazioni partecipano attivamente alla scena mondiale della birra artigianale, accanto a potenze dalla nobile tradizione come Belgio, Germania e Gran Bretagna.

BIRRIFICIO MONTELUPO Castello 1203

Ale rossa, dal nome che rievoca eventi storici di Montelupo, e che si presenta con un corpo intenso e spiccate note di malto e nocciola, lievemente tostate. Finale amaro e persistente.